Società decentrate: quando la periferia è la scelta ottimale

Introduzione: sfidare il mito del progresso lineare

Da secoli, la storia dell'umanità viene raccontata come una marcia progressiva e inesorabile, dalle piccole bande di cacciatori-raccoglitori fino all'apice della civiltà, incarnata nello Stato centralizzato. In questa narrazione, l'agricoltura e la vita urbana rappresentano il trionfo dell'ordine sulla “barbarie”. Coloro che restavano ai margini – nomadi, montanari, abitanti delle paludi – erano visti come residui di un passato meno evoluto, destinati prima o poi a essere assorbiti o spazzati via dal progresso.

Questo articolo si propone di ribaltare questa prospettiva, attingendo a nuove scoperte in archeologia e antropologia storica. Sosteniamo una tesi contro-intuitiva: per la maggioranza della storia umana registrata, vivere al di fuori delle prime formazioni statali – nella cosiddetta “periferia” – non era un segno di arretratezza, ma spesso una scelta razionale e preferibile che offriva maggiore salute, sicurezza e libertà. L'epoca dei primi, fragili stati agrari può essere descritta, con una punta di ironia, come l'“età dell'oro dei barbari”.

I. Il pregiudizio narcisistico della storia

Per comprendere la periferia, dobbiamo prima riconoscere il pregiudizio di fondo che ha reso le popolazioni non statali quasi invisibili.

La storia ufficiale è in gran parte una “narcisistica auto-rappresentazione” degli stati. L'archeologia, fino a tempi recenti, si è concentrata sui grandi siti monumentali in pietra (come le piramidi o le ziqqurat). Se una civiltà costruiva in materiali deperibili come legno, canne, o bambù, disperdendo i suoi rifiuti su un vasto territorio (come facevano cacciatori e nomadi), è svanita quasi completamente dalla documentazione archeologica.

Questo pregiudizio è amplificato dalla documentazione scritta. I testi più antichi (come la cuneiforme mesopotamica) sono intrinsecamente stato-centrici. Essi registrano tasse, genealogie reali, miti fondativi e liste di tributi. Non ci offrono voci contrastanti e non documentano in alcun modo la vita di coloro che vivevano oltre il confine. Il risultato è che la nostra percezione del passato è stata distorta, focalizzandosi su una sottile patina di “civiltà” che copriva appena la vasta maggioranza della popolazione mondiale.

II. La geografia della libertà: ridefinire il “barbaro”

Il termine “barbaro” (che useremo in senso ironico) non è primariamente una categoria etnica o culturale, ma una categoria politica e geografica inventata dai centri statali per stigmatizzare coloro che non erano soggetti al controllo statale. Il confine tra stato e barbarie si trovava precisamente là dove terminavano le tasse e la sovranità effettiva.

La geografia dei “barbari” era vasta e complessa, includendo tutte le zone non idonee all'agricoltura intensiva e tassabile richiesta dai primi stati: 1. Montagne e Steppe: Abitualmente dimora di nomadi e pastori. 2. Foreste Densi, Paludi e Delta dei Fiumi: Ambienti difficili da mappare, percorrere e rendere “leggibili” dall'amministrazione statale.

La vita in queste aree era caratterizzata da strategie di sussistenza miste e mobili: caccia, raccolta marina, coltivazione itinerante (swidden o slash-and-burn), allevamento e tuberi. Questa diversità e mobilità erano fondamentali per la loro libertà, poiché rendevano la loro produzione “illeggibile” (difficile da misurare e tassare) agli occhi dello stato.

Va notato che queste popolazioni non erano isolate. Erano spesso coinvolte in lucrativi scambi commerciali con i centri statali, fornendo beni di lusso o strategici (bestiame, metalli, legname, schiavi). Inoltre, l'abbandono dei centri statali per la periferia (self-nomadization) poteva rappresentare una strategia di sopravvivenza o un modo per mantenere l'autonomia.

III. I Costi nascosti della civiltà: fuga dalla coercizione

L'attrazione della periferia non era solo economica, ma era strettamente legata al desiderio di evitare i costi materiali e sociali della vita sotto il dominio statale.

A. Fatica e salute

Le prime formazioni statali si basavano sulla coltivazione intensiva di cereali (come orzo e grano), scelte perché facilmente misurabili, trasportabili e tassabili. Tuttavia, l'agricoltura arcaica era estremamente faticosa (nota come drudgery) e richiedeva molto più lavoro per caloria prodotta rispetto alla caccia e raccolta. Il passaggio all'agricoltura sedentaria è stato spesso visto non come un'opportunità, ma come “l'ultima risorsa” (la teoria backs-to-the-wall) imposta da pressioni demografiche o coercizione.

L'agricoltura sedentaria, inoltre, ha portato a un peggioramento delle condizioni di salute: * Dieta Contratta: Una maggiore dipendenza da pochi cereali (ricchi di carboidrati ma poveri di micronutrienti) portò a malnutrizione e stazza ridotta. * Malattie e Densità: La concentrazione di popolazione (“domus module”) e la coabitazione con il bestiame creavano un “perfetto uragano epidemiologico” (zoonosi). Malattie come vaiolo, morbillo e tubercolosi si diffusero rapidamente negli agglomerati urbani e nei villaggi, portando a tassi di mortalità elevati che spesso potevano essere compensati solo con una massiccia immigrazione dall'esterno.

Le popolazioni non statali, che vivevano disperse, in aree meno dense e con diete più ampie, avevano una salute generalmente migliore.

B. Schiavitù e controllo della popolazione

I primi stati erano essenzialmente “macchine per la popolazione” focalizzate sull'acquisizione e il controllo dei sudditi per far lavorare la terra. La manodopera era assicurata attraverso: 1. Corvée: Lavoro forzato e oneroso richiesto ai sudditi per progetti statali (costruzione di canali, monumenti). 2. Schiavitù e Servitù: Il lavoro non libero era fondamentale. Le prove di schiavitù e di manodopera servile (come i prigionieri di guerra o i debitori) sono abbondanti, anche se le dinamiche della schiavitù mesopotamica erano complesse.

La periferia, al contrario, offriva una libertà di movimento e l'assenza di un apparato di coercizione onnipresente. L'esortazione a diventare uno scriba nell'Antico Egitto per sfuggire alla drudgery e ai “molti signori e numerosi maestri” cattura perfettamente la pesantezza della vita come soggetto statale. Scegliere la periferia significava evitare questa gabbia coercitiva.

IV. Collasso e disassemblaggio: una “Età Oscura” luminosa

La tradizionale visione della storia statale associa il “collasso” a una catastrofe civile. Quando i grandi centri (come Uruk dopo il suo apogeo o le città Maya) venivano abbandonati, si parlava di “età oscura”.

Tuttavia, l'analisi del passato profondo suggerisce una lettura molto diversa:

La “fragilità” degli stati basati su un'agro-ecologia ristretta (come le monocolture cerealicole) significava che l'opportunità di fuggire dalla gabbia dello stato era sempre presente per coloro che potevano semplicemente allontanarsi verso aree di sostentamento più diversificate e meno controllabili.

Conclusione: la storia come possibilità aperta

La nostra comprensione della storia umana è stata a lungo limitata da narrazioni che vedono l'evoluzione sociale come un percorso obbligato verso la complessità, la gerarchia e lo stato. Tuttavia, le prove archeologiche e storiche degli ultimi decenni rivelano che le società preistoriche e non statali erano intrinsecamente complesse, fluide e consapevoli delle proprie scelte politiche.

Le popolazioni non statali, che costituivano la maggioranza dell'umanità per millenni dopo l'emergere dei primi centri urbani, non erano relitti isolati. Erano attori politici attivi che, in molti casi, esercitavano una critica implicita, ma potente, contro la civiltà coercitiva, preferendo l'abbondanza ecologica, la mobilità e l'assenza di tassazione e lavoro forzato offerti dalle periferie. La loro persistenza e resilienza ci ricordano che la storia umana è un campo di possibilità molto più ampio e giocoso di quanto i modelli evoluzionistici unilineari ci abbiano lasciato credere.


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