Biblioteche Digitali e il Paradosso della Scarsità
Quando la logica del profitto si insinua dove dovrebbe regnare la condivisione
Nel mondo digitale, dove l’informazione può viaggiare all’infinito senza perdere nulla di sé, abbiamo paradossalmente deciso di ricreare la scarsità. Non perché sia necessaria, ma perché qualcuno ha scelto che lo fosse. E così, anche le biblioteche digitali – nate come strumenti di accesso universale al sapere – si piegano oggi a modelli economici pensati per un altro tempo, un altro spazio, e soprattutto per altri interessi.
In una biblioteca fisica, la scarsità è un fatto: c’è una sola copia di un libro e chi arriva tardi deve aspettare. Ma questo limite è materiale, non concettuale. È il risultato della realtà tangibile di scaffali e volumi. Nel mondo digitale, invece, questa necessità scompare. Un file può essere replicato all’infinito, istantaneamente, senza costi aggiuntivi significativi. Eppure, continuiamo a imporre artificialmente il concetto di “prestito esclusivo” anche per gli ebook.
Una scarsità costruita ad arte
Questa logica non nasce da un bisogno tecnico, ma da una precisa scelta ideologica: traslare i meccanismi del mercato – con la loro necessità di controllo, limite e profitto – anche lì dove non sono richiesti. È una forma di scarsità progettata per mantenere il valore commerciale di ciò che, in un mondo più equo, potrebbe essere condiviso liberamente.
Le biblioteche digitali, in teoria, dovrebbero rappresentare un baluardo contro l’esclusione culturale. Dovrebbero essere lo spazio dove il sapere è accessibile a chiunque, indipendentemente dalle possibilità economiche. Ma oggi, persino loro sono costrette a sottostare a vincoli imposti da un sistema che misura il valore della conoscenza in termini di mercato.
Chi ostacola davvero l’accesso?
Il risultato è un’ulteriore barriera, soprattutto per chi cerca informazioni non più in commercio, opere rare o contenuti fuori catalogo. È qui che si crea un cortocircuito: chi avrebbe il compito di facilitare l’accesso finisce per diventare un ostacolo, imbrigliato da regole che non hanno nulla a che vedere con il bene comune.
In questo scenario, le alternative emergono non tanto come atti di ribellione, ma come tentativi di compensare una mancanza. Il problema non è l’utente che cerca un’informazione introvabile; il problema è un sistema che protegge il contenuto fino a renderlo inaccessibile, anche quando la tecnologia permetterebbe di distribuirlo con facilità e giustizia.
Rimettere al centro la conoscenza
Una biblioteca non dovrebbe avere come priorità il mercato. Il suo scopo profondo è un altro: offrire accesso alla conoscenza, custodire e diffondere il sapere. La scarsità digitale, al contrario, tradisce questa missione. È un’anomalia, non una necessità. Un errore sistemico che ci impone di limitare artificialmente ciò che, per sua natura, è abbondante.
Ripensare le biblioteche digitali significa allora mettere in discussione un modello economico che tratta anche l’informazione come merce. Vuol dire affermare che il sapere non dovrebbe avere barriere, né fisiche né ideologiche.
Perché nel mondo digitale non serve aspettare il proprio turno per leggere un libro. Serve solo la volontà di condividere, senza temere di perdere qualcosa. Al contrario, più si condivide conoscenza, più questa cresce. E forse è proprio questo che fa paura a certi sistemi: un sapere che non può essere contenuto.
Forse, in fondo, la domanda che dovremmo porci non è solo come rendere accessibile il sapere, ma perché continuiamo a costruire ostacoli dove potremmo tracciare sentieri.
In un mondo che insiste nel misurare ogni cosa, c'è ancora spazio per ciò che cresce condividendosi, per ciò che vale perché viene offerto, non trattenuto.
Chi cammina cercando conoscenza non chiede permesso: ascolta, raccoglie, restituisce. E, silenziosamente, alimenta un equilibrio più profondo — uno in cui il sapere non è proprietà, ma respiro comune.
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